***Del giudizio di Pier Luigi Celli, mi fido. Come sindacalista dell’Usigrai, ho avuto varie volte occasione di frequentarlo quando era a capo del personale, o per peggio dire delle risorse umane. In ragione di quel suo incarico, e dell’altro ancora più impegnativo di direttore generale dell’azienda di servizio pubblico, la riflessione di Celli su Bruno Vespa può in certo modo considerarsi una confessione. Sul popolarissimo maggiordomo della “terza Camera” parlamentare i miei ricordi risalgono invece a molti anni prima, quando il giovane collega era appena arrivato dagli Abruzzi, meritoriamente assunto in RAI con una selezione pubblica per telecronisti. A me bastò, per avere un’idea del suo modo di concepire la professione, una delle sue prime esibizioni importanti di giovane inviato. Qualche giorno dopo la strage di Piazza Fontana, si trovò ad annunciare in diretta l’arresto (decisamente imprudente, come poi dimostrarono i fatti) dell’anarchico Pietro Valpreda . “Abbiamo il colpevole”, disse, o qualcosa del genere. La redazione era allora in via Teulada e io ho ancora nelle orecchie le grida sdegnate dalla stanza di Pier Emilio Gennarini, direttore dei servizi giornalistici della Rai, per chi, irresponsabilmente, stava dando in pasto al pubblico dell’unico telegiornale italiano di allora quel terribile marchio di infamia. Fu la prima di quelle uscite che tanti hanno bonariamente considerato delle “gaffe” e altri invece, come me, indecorosi tributi a una spasmodica ricerca di popolarità personale. Perché sorprendersi se oggi, con la cinica spudoratezza di sempre, pretende di far “conoscere” la mafia presentando un libro del figlio del “capo dei capi”? Come il mago con l’ “apprendista stregone”, né Celli né altri hanno saputo o voluto fermare la resistibile ascesa di quel cronista nei palazzi del potere. Fino a consentirgli di celebrare con i suoi libri annualmente, circondato dal servile opportunismo dell’Italia peggiore, la storia meno edificante della nostra repubblica (nandocan).
***di Pier Lugi Celli, 10 aprile 2016 *- Per chi è abituato ad avere ragione, il torto degli altri è condizione necessaria: non si discute. Tanto più se il tempo si è incaricato di confermare le certezze personali per il solo fatto di essere ancora lì, al nostro posto; sopravvissuti a tutto e a quasi tutti.
Bruno Vespa è anche questo: testimone di una verità per difetto di alternative.
Che poi queste siano state accuratamente tenute lontano col mito della propria unicità è solo un modo un po’ più paraculo per rendersi indispensabile, e prosperare nella continuità.
Quello che sorprende non è la bravura dell’attore, è la rassegnazione degli impresari.
Se si appalta un lavoro qualsiasi si finisce per appaltare anche gli ingredienti e persino il modo con cui mescolarli.
Non ci si può poi lamentare della sorpresa per il risultato.
Vespa è così: inclusivo, nel senso che si include; pervasivo al punto di non avere confini di genere o di territorio; giustamente orgoglioso del proprio potere acquisito.
Ha costruito una liturgia cerimoniale in cui la levità della chiacchiera dovrebbe togliere ogni veleno alla pesantezza dei contenuti più scottanti.
E questa è la colpa maggiore: l’abuso del sornione tentativo a depotenziare, sminuire, dare per scontato.
Esattamente in linea con il costume nazionale a sorvolare con un sorriso e una battuta. O con un eccesso di strazi sentimentali per palati grossi.
Se non lo si può spegnere (dio ci salvi dalla censura !) c’è sempre l’alternativa di ignorarlo.
In fondo abbiamo fatto a meno di ben altri guru.
*da RemoContro, il grassetto è di nandocan