***di Piero Schiavazzi, 18 marzo 2016 – Sebbene non lo attenda nessuna elezione e solo lui, sull’esempio di Papa Benedetto, possa fissare scadenze al suo mandato, nell’immaginario di un leader “americano”, qual è Francesco, il quarto resta l’anno del giudizio: quello in cui un leader, dalla Casa Bianca di Washington alla Casa Rosada di Buenos Aires, tira le somme e accelera le riforme, affrontando il responso dei contemporanei.
Per questo, negli ultimi mesi Bergoglio ha accentuato i tratti geopolitici della sua mission. Un profilo scandito e scolpito, in successione, dall’impronta di tre aggettivi: riformista, ribelle, rivoluzionario. Come i prototipi che, dopo vari aggiustamenti e prove su strada, rivelano il loro aspetto definitivo: scostandosi dai modelli del passato, sicuramente, ma pure dall’intento iniziale dei progettisti, ossia dei cardinali elettori, che certo non prevedevano una simile evoluzione.
Dal conclave del marzo 2013 è uscita infatti una “world car” che mira in primo luogo alla conquista dei “mercati” mondiali – dove il cristianesimo cresce a due cifre, dall’Africa profonda fino alla Cina proibita – e non alla riconquista dell’Occidente, considerato abulico spiritualmente oltreché asfittico demograficamente. Facile preda di egoismi e populismi, dalla City all’Île-de-France, dai Lander germanici di Frauke Petry alle lande magiare di Viktor Orbán.
La world car di Francesco è una vettura diplomatica dal motore brillante, spigliato, che il Papa guida con mano audace, sovente spericolata e persino spregiudicata, dalle rive del Tevere a quelle del Rio Grande, dalla via di Damasco a quella di Mosca, mentre la curia e la gerarchia ecclesiastica, in generale, stentano a ritrovarcisi e ostentano sempre più il proprio disagio. Al posto dei principi non negoziabili, la specialità della casa sono adesso i negoziati a tutto campo, con Kirill e Rouhani, oggi, con i Sunniti e Xi Jinping, a breve. Lasciando fuori per ora Erdoğan e Netanyahu, palesemente diffidenti e velatamente insofferenti verso il Pontefice. In attesa del verdetto che conta, quando le presidenziali di novembre insedieranno a Washington un imperatore liberista o una imperatrice liberal, scegliendo tra Donald Trump e Hillary Clinton, incompatibili entrambi, l’uno brutalmente, l’altra benevolmente, con l’indole anticapitalista di Bergoglio.
La portata della sfida che attende il Papa, nell’anno quarto del pontificato, esigerebbe dunque una generazione di nuovi piloti, avvezzi alle piste accidentate della guerra mondiale a pezzi, non ai circuiti levigati dello sprint tra intellettuali. Non è più tempo insomma di vescovi da salotto e di “cortili dei gentili”, che per definizione configurano uno spazio chiuso, ristretto e protetto, lontano dalle periferie anonime dove dimora, e lotta per sopravvivere, il popolo di Dio.