Sappiamo ancora marciare per i nostri diritti? Io credo di sì. Marciare sappiamo e lo abbiamo dimostrato più volte in questi anni. Contro l’abolizione dell’articolo 18 eravamo tre milioni e per un po’ siamo riusciti a impedirla. Ma quelli che non marciavano erano di più e bisognava convincerli. Come? Uscendo, come scrive Marnetto, “dalla nostra dimensione consueta di cittadini solitari, di associazioni chiuse, di organizzazioni autosufficienti”. Ma una volta per tutte, non soltanto per una marcia. Perché anche questo sappiamo, che la sinistra italiana è stata fino ad oggi irresistibilmente attratta dal frazionismo, dalla scissione, dalla scomunica reciproca. E chi cerca di richiamarla all’unità operativa, se non a quella organizzativa, si trova di fronte a mille difficoltà. Vale per i partiti ma in parte anche per le associazioni e i movimenti della cosiddetta società civile. Potremmo cominciare dal web, dai nostri siti. Proviamo a collegarli, magari con un link, come ha cominciato a fare articolo 21. Mettere in comune le pagine sui social network, allargando il confronto fra iscritti e lettori, non significa rinunciare alla propria identità e ai propri obbiettivi. Una “coalizione sociale”, se è questo che vogliamo, non può vivere di una manifestazione una volta l’anno (nandocan)
Me lo chiedo a 50 anni dalla marcia di Martin Luther King a Selma, per chiedere il voto agli afro-americani. Me lo chiedo in un’Italia dove diritti essenziali sono stati lesi. Il lavoro è ricattabile a tempo indeterminato, la rappresentanza è svuotata, la parità puzza di mimosa, la diseguaglianza sociale viene normalizzata dal liberismo dilagante, la povertà non fa più notizia.