Da articolo21.org vi propongo questa intervista di un cronista televisivo che può dare una vaga idea di quanto possa essere scomoda la vita di un giornalista d’inchiesta quando non voglia limitarsi a porre domande scontate, anche se nei toni inutilmente aggressive, al personaggio da intervistare. Quella delle “querele temerarie” è una piaga che attende da troppo tempo di essere sanata con una legge seria sulla diffamazione che non lasci impunita la persecuzione immotivata del diritto di cronaca. Attenzione però. Quando si è giunti a questo punto vuol dire che diritto di cronaca e libertà di informare hanno già compiuto un passo avanti importante, superando l’autocensura aziendale. Alla RAI in particolare i Morrione e le Gabanelli che lasciano partire gli inviati per inchieste su temi decisamente “sensibili” per il potere e poi, soprattutto, non si lasciano intimidire a lavoro ultimato dalla diffida a trasmetterlo, non sono mai stati numerosi. Ai miei tempi la “prudenza” dei direttori e dei curatori di rubrica era ancora maggiore e a me personalmente è toccato di veder bloccate, anche immediatamente prima della messa in onda, inchieste realizzate, in Italia o all’estero, in settimane di duro e costoso lavoro. Costoso sì, perché un’inchiesta coraggiosa e ben fatta richiede tempo e risorse umane adeguate, anche se oggi, grazie alle nuove tecnologie, un po’ meno di ieri. E credo proprio che sia questa una delle ragioni per cui oggi si preferisce dedicare intere serate alle chiacchiere in studio piuttosto che ad indagini approfondite. Perché se, rispetto a queste ultime, i talk show raramente fanno apprendere qualcosa di nuovo, il controllo politico è esercitato fino all’ultimo da un conduttore e il rapporto tra costi di realizzazione ed entrate pubblicitarie è decisamente favorevole. Non è questo quello che conta? (nandocan)
***di Elisa Marincola, 5 febbraio 2016 – Una settimana fa denunciavamo il pesante clima di indirette intimidazioni contro un cronista d’inchiesta di grande valore come Lirio Abbate pronunciate dall’avvocato di Carminati e dei Fasciani. Oggi ricostruiamo un altro caso di quotidiane intimidazioni a cui è sottoposto da anni un altro cronista di razza. Parliamo di Sigfrido Ranucci, coautore di Report, e questa volta le intimidazioni vestono i panni delle querele sistematiche, reiterate, in alcuni casi addirittura preventive, sempre temerarie.
Il ruolo del cronista diventa sempre più sgradito, e non solo ai mafiosi o ai regimi dittatoriali. In Italia, alla vigilia delle celebrazioni per i settant’anni della Repubblica nata dal voto del 2 giugno 1946, che pose fine alla monarchia e diede vita all’Assemblea Costituente, compiere il proprio dovere di raccontare la verità è diventato quasi impossibile per i giornalisti d’inchiesta. Non è un caso se è una categoria che va assottigliandosi, nonostante l’entusiasmo di tanti giovani, come dimostra il successo, riconfermato anche quest’anno, del Premio Morrione per il giornalismo d’inchiesta rivolto proprio a chi non ha ancora compiuto 31 anni.
Quanto sia difficile ce lo racconta Sigfrido Ranucci, autore, con Milena Gabanelli, di Report, programma di giornalismo investigativo di Rai 3 giunto alle soglie dei vent’anni di vita.
Ranucci, che è a Report da quasi dieci anni, ha alle spalle una lunga esperienza nella squadra di Roberto Morrione e ha firmato, con Maurizio Torrealta, una delle inchieste di maggior successo in assoluto della tv, “Falluja la strage nascosta”, che nel 2005 ha costretto gli Stati Uniti ad ammettere l’uso del fosforo bianco nei bombardamenti sulla città irachena in mano ai ribelli. Un video che ha fatto il giro del mondo, suscitando un caso internazionale per la violazione della convenzione Onu che vieta l’uso di armi chimiche sui civili. Per questa e per il suo lungo lavoro investigativo Ranucci è stato pluripremiato.
Eppure, affrontare il gigante americano è stato più semplice che raccontare i lati oscuri del nostro paese. Lo abbiamo incontrato nella redazione di Report a Roma.
Quando hai ricevuto l’ultimo avviso di querela?
Tra Natale e Capodanno. Agli altri arrivano cartoline d’auguri , a me arrivano querele e richieste di risarcimento danni. Ne sono state recapitate tre, due proprio la vigilia di Natale, un altro il 31, e ognuna per un’inchiesta diversa, anche di anni fa. Ho i brividi quando suona il postino.
Ma quali sono le imputazioni più ricorrenti?
Naturalmente l’accusa di diffamazione è praticamente fissa. Per un’inchiesta su Verona, mi viene contestato addirittura il millantato credito e la sostituzione di persona, perché non ho detto di essere un giornalista, pur avendo io precisato che stavo realizzando un servizio di informazione. E in più ci sarebbe la diffamazione semplicemente perché ho riportato le dichiarazioni degli stessi accusatori, tutte documentate in video naturalmente.
In pratica, sotto accusa c’è il cosiddetto giornalismo sotto copertura, una forma di racconto indispensabile per un cronista investigativo che non può fermarsi al rifiuto opposto ormai in modo quasi sistematico quando in ballo c’è una storia poco chiara. La stessa Corte europea di giustizia si è pronunciata sulla validità di registrazioni nascoste quando si tratta di notizie di interesse generale. Ad oggi qual è la vicenda giudiziaria che ti impegna di più?
Quella riguardante l’inchiesta “L’Arena”, dedicata all’amministrazione di Verona e al suo sindaco Tosi. Per cercare di fermare la messa in onda di quell’inchiesta hanno usato le querele come “armi di distruzione di massa”: ne hanno fatte quattro preventive, prima della trasmissione e altre quindici dopo. In tutto diciannove querele per una trasmissione di 36 minuti, presentate in ben quattro procure diverse, la stessa Verona e poi Padova, Venezia e Roma, credo sia un record mondiale. A causa di una poi, ho subito anche una richiesta di rinvio a giudizio in appena diciotto giorni, sulla base di file video che si è dimostrato essere stati manipolati, per fortuna me ne sono accorto in tempo. Ed è finito tutto in archiviazione.