In tal senso ha ragione Andrea Manzella a scrivere su Repubblica che siamo oggi all'assurdo di “una partitocrazia senza partiti. Della forma partito ha resistito cioè il duro guscio burocratico, una nomenclatura di vertice, il caucus di segretari alla testa di organizzazioni che hanno presenza quasi soltanto simbolica nella società. Ma leader che conservano tuttavia forza effettiva sui gruppi parlamentari, tenuti insieme dal potere di candidatura”.
Cambiare questa legge elettorale è davvero un obbligo morale come ha sottolineato giustamente D'Alema. E sarebbe obbligo morale anche riuscire a trovare un accordo al più presto possibile tra le diverse proposte. Che se poi l'accordo non si trovasse, obbligo morale diventa quello di restituire concretamente ai cittadini il loro potere elettorale attraverso le primarie, di partito e/o di coalizione.
Tanto più che le primarie non sono soltanto lo strumento più democratico inventato sinora per la selezione dei candidati alle cariche istituzionali. Sono un'occasione da non perdere per rinnovare dalla base la democrazia interna ai partiti, costringendo le oligarchie attuali a fare i conti con le istanze che provengono dagli iscritti e dagli elettori; ricordando e imponendo ai leader il compito di rappresentare e non soltanto dirigere.
Certo, le primarie da sole non bastano. Perché possano essere riconosciute come il metodo democratico di cui parla l'articolo 49 della Costituzione occorre che, per le primarie e poi per le elezioni, a determinare la vittoria non sia la pressione della propaganda (e del denaro che la finanzia) ma la circolazione di informazioni e di idee la più larga possibile. Obbiettivo questo non facile se è vero che neppure gli Stati Uniti d'America, paese che ha dato il via alle primarie, sono riusciti a raggiungerlo.
Quanto contano in America i fondi raccolti per una campagna elettorale al fine della vittoria finale? Nel libro “La terza rivoluzione industriale” (Mondadori,2011), il grande economista Jeremy Rifkin cita un'analisi condotta dal Center for Responsive Politics sulle elezioni del 2008, secondo la quale “nel 94% delle corse per un seggio al Senato e nel 93% di quelle per un seggio alla Camera dei rappresentanti il cui risultato si è deciso nelle ultime ventiquattr'ore, ha vinto il candidato che aveva speso di più”.
In Italia, lo sappiamo, alla forza corruttrice deel denaro si aggiunge il peso ingombrante delle mafie e delle clientele. Ma ci sono anche buone ragioni per essere ottimisti. Le nuove opportunità offerte soprattutto ai giovani dall'informatica e dai social network dimostrano ogni giorno di più che è possibile cambiare le cose. Anche per questo è imperativo che i reiterati attacchi portati alla libertà della Rete vengano con determinazione respinti.
La democrazia, non vince (solo) con le primarie: tu dici bene ”… da sole le primarie non bastano”. Ma vince con un sistema di regole e garanzie a tutto campo che abbiano come centro di gravità la nostra Costituzione. Non facendo parte dell’ormai largo coro di anarchici che spara ad alzo zero sul partito politico e sulla "partitocrazia" , ritengo di appartenere a quella minoranza che auspica una riforma del suo essere parte ineliminabile della democrazia politica partecipata e, non essendo nell’Atene di Pericle, rappresentativa. Temo allora e non da oggi, che dietro la crisi del partito politico e dietro la riforma elettorale si stia preparando un grande trappolone che ci chiama ad essere vigili e attenti sulla “larga banda” delle proposte e degli eventuali anche se improbabili accordi bipartisan. Cambiare la legge elettorale, che oggi dice di volere anche il Pdl, comincia infatti a far capire il “do ut des” nascosto. E’ uno scambio asimmetrico e pericoloso di principi e valori democratici, che emerge da una strisciante ed equivoca proposta di rafforzamento dell’esecutivo, definito in dottrina presidenzialismo, sul quale, oltre ai “quotidiani di famiglia”, si esercita ogni tanto anche il Corriere della Sera non solo con alcuni suoi collaboratori liberisti ideologici d’antan, ma anche attraverso la penna di qualche suo editorialista di scuola einaudiana. L’ultimo in ordine di tempo è stato il pur attento Galli della Loggia che in un suo articolo del 6 febbraio è scivolato sulla buccia di banana dell’inattualità della nostra Carta – sulla cui origine bolscevica ricordo che si erano soffermati nel recente passato Giuliano Ferrara, Marcello Pera, Renato Brunetta e via Berluscondiscorrendo dei cesaro-gollisti italiani.
La disinvolta lettura della nostra Carta e alcune sue incredibili affermazioni, hanno sollecitato sul Corriere del 9 febbraio, un feroce e preoccupato intervento del Presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida che forse faresti bene, caro Nando, a postare.
E‘ un commento i cui toni mi hanno ricordato la passione costituzionale di Oscar Luigi Scalfaro, che ho avuto il piacere di vedere e sentire in via Po come presidente nazionale del Comitato “Salviamo la Costituzione”.
Un Comitato che tuttavia farebbe bene a tenere le orecchie tese e che sarebbe il caso si facesse ogni tanto sentire senza passare la palla agli Onida di turno!
Un cordiale saluto. Nino Labate
(E.C) Mi scuso era nella sede della CGIL in corso d'Italia a Roma che si riuniva il Comitato nazionale "Salviamo la Costituzione", non nella sede della Cisl in via Po.
Caro Nandocan,
sottoscrivo convintamente sostanza e forma del commento di Nino Labate, al quale aggiungo alcune mie riflessioni che riporto qui di seguito.
Ritengo più che lecito che si esprimano tutti i pareri possibili, immaginabili e anche inimmaginabili sulla modifica della nostra Costituzione. Però senza sotterfugi. Si vuole una repubblica presidenziale? Lo si dica con chiarezza. E soprattutto si rispettino i limiti imposti dalla costituzione vigente nel presentare le leggi di modifica costituzionale. Aumentare i poteri del Presidente del Consiglio, per esempio come aveva tentato di fare Berlusconi nel 2005, può significare un ridimensionamento incostituzionale dei poteri del Presidente della Repubblica, già intaccati, a mio modestissimo parere, dall'indicazione di premiership inserita nelle elezioni politiche (e certamente non prevista dalla Costituzione che assegna al capo dello Stato, e solo a lui, il compito di indicare il Presidente del Consiglio). E poi chi lo dice che l'attuale Costituzione non attribuisce già al Presidente del Consiglio incaricato notevoli poteri, per esempio nella scelta dei ministri da sottoporre al Presidente della Repubblica. I rituali che hanno quasi sempre accompagnato la formazione dei governi, altro non erano che una indebita intromissione dei partiti. L'indicazione del premier da parte dell'elettorato è di fatto una riduzione dei (già pochi) poteri del Capo dello Stato, peraltro non eletto dai cittadini. Allora tanto varrebbe puntare a un modello presidenziale, all'americana o alla francese. Semmai, a mio avviso, i poteri del Capo dello Stato andrebbero aumentati, per esempio rendendo più esplicita e non soggetta a ambigue controfirme (notarili o di sostanza?) la decisione di scioglimento delle camere.
Qualcuno poi mi dovrebbe spiegare perché una costituzione meno che settantenne sarebbe da rivedere sostanzialmente mentre quella americana sopravvive da oltre 200 anni. Cambiamenti radicali, a meno che non ci si trovi di fronte ad avvenimenti drammaticamente epocali – caduta di dittature, guerre, rivoluzioni, sono solo la scusa addotta da una classe dirigente incapace di affrontare i problemi e che tenta di scaricare questa sua incapacità su presunte lacune organizzative ed istituzionali. E' un film già visto, in scala ridotta, anche in quei microcosmi che sono le imprese: cambiare tutto per nascondere buchi di bilancio ed errori industriali.
Prima della Costituzione occorre cambiare la (sotto)cultura politica dei nostri partiti. Il problema risiede, come sempre, negli uomini. Una cosa è certa, è poco saggio affidare a chi ha portato le cose a questo punto una qualsiasi seria riforma. Occorre cambiare gli uomini. Trovandone di più capaci. Bisogna ricostruire la politica. Nuovi uomini, nuovi partiti, nuovi rapporti tra partiti e società. Altrimenti ci accartocciamo sempre di più.
In attesa di questi tempi migliori, puntiamo, molto più modestamente, ad una riforma della sola legge elettorale, senza farci coinvolgere in pericolose operazioni costituzionali. Anzi, opponendoci con tutte le forze.
Nando