Renzi sbaglia, non è un problema di persone. Se così fosse basterebbe chiedergli di impegnarsi domani a fare la stessa cosa che ha fatto Bersani con lui nello scorso novembre: accettare la sfida di Letta (o chi per lui) alle primarie per la candidatura a premier. No, i candidati non c’entrano, c’entra piuttosto la forma da dare ai rapporti tra partito e governo, tra partito e istituzioni rappresentative. C’entra la necessità di separare la dirigenza nazionale e locale del partito da quella macchina dello Stato arcaica che i partiti devono smettere di occupare e impegnarsi piuttosto a riformare. Dunque nessuna nostalgia, semmai voglia di cambiamento.
Se il leader del partito è anche capo del governo, il gruppo dirigente centrale si identificherà col governo, la propaganda prevarrà sull’ elaborazione critica. Gli scontri interni all’oligarchia, assistiti dalla comunicazione mediatica diretta con gli elettori, toglieranno spazio al dibattito democratico nei circoli e nei quadri intermedi. Vorrebbe dire spegnere quel confronto di idee e conoscenze negli organismi di base del partito che soltanto da poco, grazie anche allo stimolo di associazioni e movimenti della sinistra, ha ripreso a dar segno di vita. Compito del segretario, come degli altri dirigenti del Pd è di promuoverlo, coordinarlo e tradurlo in indirizzi politici per gli eletti nelle istituzioni rappresentative, centrali e periferiche.
Se il partito con la sua dirigenza subisce, come è avvenuto finora, l’egemonia degli eletti, più difficile sarà il buongoverno, la difesa del bene pubblico dagli interessi privati e più difficile il cambiamento. Solo sfidando lo Stato dall’esterno può nascere vera innovazione. E in questa sfida la base degli iscritti, aprendosi sempre di più alle sollecitazioni del territorio che ha il compito di interpretare, avrebbe quel ruolo chiave che molti vorrebbero valorizzato. Con le primarie aperte per il segretario, invece, il compito specifico dei militanti del Pd “si ridurrebbe a quello di montare i gazebo” (la battuta non è mia ma di Massimo D’Alema al recente incontro pubblico con Rodotá).
A questo percorso – nuovo perché mai realmente avviato – per dare finalmente attuazione all’articolo 49 della Costituzione (“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”), sembra aderire anche il segretario attuale del Partito democratico, Guglielmo Epifani. Ma è anche il modello che l’ex ministro e neo iscritto Fabrizio Barca va proponendo ai circoli in giro per l’Italia, consapevole delle forti resistenze che troverà, specie da parte di chi sogna ancora per l’Italia una democrazia di tipo anglosassone, con Renzi al posto di Blair, o almeno francese (con Berlusconi o Monti al posto di De Gaulle?). Nessun sistema può essere valutato astraendo dalla realtà sociale,culturale e politica a cui si applica.
Ironia a parte, voglio precisare, ringraziandoli, ad alcuni lettori che hanno commentato l’editoriale precedente (“Matteo Renzi e il partito dell’io”), che la mia critica al leaderismo non intendeva affatto negare il ruolo del leader come punto quasi naturale di riferimento e anche di coagulazione per gli orientamenti politici, neppure quello di Renzi in particolare. Altra cosa è quello scontro fra tifoserie e populismi che ha inquinato e continua a inquinare il dibattito politico nella seconda repubblica.
Perché il mio orientamento risulti ancora più chiaro e non si presti a equivoci chiedo aiuto ad un costituzionalista di grande valore e con una lunga esperienza parlamentare come Andrea Manzella riproponendo a quelli di voi che non l’avessero letto sulla Repubblica del 18 giugno scorso l’editoriale intitolato “Le voragini della democrazia italiana” nella parte che si riferisce al documento di Barca.