Diventa sempre più chiaro che attentati come quello di Manhattan e i tanti che l’hanno preceduto in Europa non solo sono imprevedibili ma trovano nel disagio economico e sociale delle periferie occidentali, come nelle difficoltà di integrazione degli immigrati di seconda e terza generazione, il terreno più fertile per un indottrinamento via web e per il reclutamento dei più facilmente suggestionabili dalla prospettiva di una morte “eroica”. Pensare di poter affidare la prevenzione di tutto questo alla polizia e ai servizi segreti senza provvedere a risanare sul piano economico, sociale e soprattutto educativo le condizioni di partenza è semplicemente folle. Non saranno certo Guantanamo o la feroce repressione auspicata da Trump e dal populismo delle destre europee a impedire il moltiplicarsi in futuro di queste tragedie. (nandocan).
***di Piero Orteca, 2 novembre 2017 – L’ennesimo sanguinoso attentato di matrice islamica a New York potrebbe avere, in realtà, una “firma” diversa da quella dell’uzbeko che ne è stato l’autore materiale. Parliamo di Turjuman al-Asawirti, un nome che gira solo negli uffici dei servizi segreti occidentali o, al massimo, tra gli esperti dei “think-tank” accademici che si occupano di sicurezza globale e di terrorismo. Al-Asawirti è una specie di genio dell’informatica, non tanto in senso tecnico, quanto, piuttosto, sul versante della capacità “massmediologica”.
Mette la sua esperienza al servizio del Califfato e ne cura l’immagine e le campagne di reclutamento “a distanza”, incuneandosi abilmente nelle menti e nei cuori di tutti i potenziali jihadiisti di questo mondo. Insomma, è internet la nuova frontiera dell’estremismo islamico, capace di eludere qualsiasi “filtro” delle agenzie di sicurezza nei Paesi scelti come bersaglio. E il Presidente Trump dimostra di non avere capito un fico secco del problema, quando definisce gli attentatori “dei poveri malati di mente”.
La verità è che il Califfo, Abu Bakr al-Baghdadi, scaltramente, ha sovvertito le vecchie strategie utilizzate da Bin Laden e da Al Qaida, che puntavano su un nocciolo duro di terroristi professionisti, accuratamente selezionati e addestrati. Ma anche più facilmente schedabili e controllabili. Con l’Isis (e con le “primavere arabe”) è cambiato tutto. Prima i “foreign fighters” arrivati in massa dall’Europa sui teatri di guerra mediorientali (Siria e Irak, ma anche Libia) e adesso i “lupi solitari”, i terroristi “della porta accanto”, indottrinati e votati alla causa del jihadismo internazionale via web.
I servizi segreti occidentali sono stati colti di sorpresa e stanno cercando, solo adesso, di metterci una pezza, in colpevole ritardo. Mentre da un pezzo i gruppi di ricerca specializzati hanno lanciato l’allarme. La direttrice del SITE (Intelligence Group Enterprise) Rita Katz, analizza da anni il fenomeno internet come cavallo di Troia del terrorismo. E proprio il mese scorso ha pubblicato una lunga analisi, dopo l’attentato di Las Vegas, sull’impatto esponenziale del reclutamento (ma sarebbe meglio parlare di “aizzamento”) di aspiranti terroristi in nome dell’Islam, pescati negli angoli più impensati della società.
Cioè, in quelle pieghe di malessere e di disagio diffuso che si mischiano all’emarginazione e all’odio verso un sistema di valori (quello occidentale), ritenuto, a torto o a ragione, all’origine di tutti i mali. Anche se gli specialisti invitano a non generalizzare: esiste un terrorismo “delle banlieues” (periferie) come quello francese o inglese, che ha un miscuglio di radici sociali e religiose, e un terrorismo più squisitamente “coranico”, dominato da motivazioni essenzialmente islamistiche. Fanno danni entrambi, ma quello che vede protagonisti anche immigrati di terza generazione è il più pericoloso, perché assolutamente imprevedibile.
I terroristi “faidatè” magari si armano come per andare a una festa in maschera (vedi il caso di Manhattann) ma poi finiscono lo stesso per fare otto morti e una catasta di feriti. Dopo Las Vegas, il SITE ha trovato chiare tracce informatiche (su “Telegram” e su “Twitter”) dell’opera di indottrinamento via web condotta da al-Asawirti. Per questo gli specialisti aspettano che, da un’ora all’altra, compaia su internet qualche rivendicazione in arrivo dalle centrali del Califfato. Loro non hanno organizzato operativamente l’attentato di Manhattan, ma potrebbero limitarsi soltanto ad apporvi il loro “brand”, il marchio di qualità che è una specie dii “Iso 9mila” del terrorismo.
Così la pensano anche lo studioso Charlie Winter (Centro per la Ricerca su terrorismo e radicalizzazione politica dell King’s College di Londra) e Aaron Zelin del “think-tank” Jihadology. Lo dimostra anche il blog di Bayt al-Masadyr, dove è possibile reperire una quantità impressionante dii materiale vario sul Califfato e sui suoi messaggi, postati con chiare finalità propagandistiche. Ma fatta questa lunga premessa, l’intelligence occidentale come si difende? Chiudendo a ripetizione i siti sospetti di fiancheggiare il terrorismo, è ovvio. Che, però, al-Asawirti riapre regolarmente da un’altra parte il giorno dopo. Finora l’ha fatto per almeno 130 volte.
*da RemoContro, il grassetto è di nandocan.