Roma, 18 aprile 2016 – Capire che cosa sia diventata la politica, anzi la stessa definizione della politica nella mente degli italiani è diventato difficile. L’impressione è che per la maggior parte di noi, a cominciare dai politici stessi, si tratti soltanto di una lotta da condursi con ogni mezzo di propaganda per la conquista o la conservazione del potere. Una guerra tra pochi eletti, una volta vinta la quale sarà possibile prendere qualunque decisione sulla pelle degli elettori. La “casta” o il “cerchio magico”, appunto. I pochi istituti di democrazia diretta come i referendum possono servire per confermare quelle decisioni (come anche la cosiddetta riforma costituzionale) non per avere indicazioni sulla politica da seguire.
Così Matteo Renzi, amplificato dai media più importanti, ha potuto ribadire più volte che per il referendum sulle trivelle promosso dalle regioni “non si trattava di un voto politico” ma di un’inutile, insignificante faccenda tecnica che non meritava la fatica di andare al seggio. Come se non fosse una scelta politica prendere le distanze dalle lobby dei petrolieri dicendo con il voto di milioni di cittadini che è tempo di scegliere con determinazione la strada delle energie rinnovabili. E come se non fosse una scelta politica obbligare tutti i privati a rispettare una scadenza quando si tratta della concessione di un bene comune. Qualunque esso sia, dall’etere al suolo e al sottosuolo pubblico, terrestre o marino. Obbligando i concessionari alla bonifica immediata della zona di mare occupata a permesso scaduto, ciò che da oggi potranno rinviare per un tempo indefinito. Perché è questa la scelta politica che ha provato a fare il novanta per cento dei 13-14 milioni di cittadini che sono andati alle urne.
Avrebbero potuto essere di più, molti di più se televisioni e giornali non avessero prima ignorato per mesi l’esistenza stessa del referendum e poi, nell’ultima settimana, non avessero collaborato all’appello al non voto del presidente del Consiglio con una formula sbrigativa e decisamente scoraggiante. Dicendo che si votava “sulla prosecuzione senza scadenza del lavoro delle trivelle anziché fermarle quando c’è ancora gas o petrolio disponibile nei giacimenti”.
Il fatto è che precisare il significato politico, e non solo tecnico-normativo, del referendum voleva dire offrire agli elettori la possibilità di fornire un’indicazione precisa sul loro orientamento in una materia come quella della politica energetica che li riguarda direttamente, eccome se li riguarda. Magari ricordando anche quello che solo oggi ha ricordato sulla “Repubblica” Rossella Muroni di Legambiente: “abbiamo recepito la direttiva europea che vieta di cedere a un privato l’uso dei beni collettivi senza fissare una scadenza per la concessione e senza aste. E’ un principio di buon senso ma l’Italia è già sotto accusa per le violazioni di questa norma”.
La politica come visione, ecco quello che manca alla nostra democrazia sofferente. Per questo non sono d’accordo con Eugenio Scalfari quando nel suo editoriale di ieri afferma che “visto che i giacimenti petroliferi sono stati individuati soltanto nella costa adriatica e ionica…sarebbe molto opportuno non estendere all’intero Paese questo tipo di referendum che ne riguardano soltanto una parte”, perché “se invece i referendum del tipo di quello delle trivelle devono valere per tutti, è evidente che chi partecipa a quel voto lo fa per ragioni di politica generale che esulano del tutto dalla domanda referendaria. Si vuole incoraggiare oppure indebolire il leader di turno, Renzi in questo caso”. Ebbene io, come penso tanti altri italiani, sono stato a votare per le ragioni che ho detto: non è un Paese per fossili, come dice il cartello di Greenpeace sulla foto. Non per fare un dispetto a Renzi e tanto meno perché sia personalmente disturbato dalla presenza delle trivelle. Ma che glielo dico a fare? (nandocan).