Roma, 26 marzo 2016 – La prima volta che ho assistito a uno spettacolo di Paolo Poli è stata al liceo Dante di Firenze (nella foto), per una recita scolastica della “Locandiera” di Carlo Goldoni. Se la memoria non mi inganna, io frequentavo la media nel seminterrato dell’edificio in piazza della Vittoria, mentre lui, più anziano di me di sei anni, era probabilmente alle soglie della maturità. Nella parte del cavaliere, follemente innamorato della locandiera, subiva i maltrattamenti di Elina Imberciadori, la figlia del preside del liceo, che immagino fosse anche sua compagna di classe. In quella giovane compagnia teatrale, l’Alberello, Paolo Poli recitava con Ferruccio Soleri, suo coetaneo che diventerà poi il “principe” degli Arlecchini, con Ilaria Occhini e Beppe Menegatti che curava le regie. Ho poi letto su internet che Franco Zeffirelli e Giorgio Albertazzi “li consideravano i loro pupilli” e che anche Renzo Montagnani era stato “coinvolto nelle loro attività”.
L’ultima volta che ho visto e ammirato Poli è stata tre anni fa, al teatro Ghione, per una godibile rassegna di poesia pascoliana, sceneggiata e interpretata come sempre da lui con bonaria ironia e finissimo senso dell’humour.
Scandalosamente divertente, negli anni sessanta, la sua rivisitazione della storia di Rita da Cascia. Anche per me indimenticabile.