Dal Redattore sociale, 10 marzo 2015. Tecniche holliwoodiane, montaggi veloci, la narrazione del Califfato ha convinto migliaia di giovani a partire verso la jihad, rifiutando la cultura europea. Morcellini (Università Sapienza) accusa: “La stampa italiana non sa reagire alla narrazione del Califfato”.
ROMA, 10 marzo 2015 – Video realizzati con perizia hollywoodiana, perfetta scelta dei tempi di diffusione per avere sempre l’apertura sugli organi di informazione e costruire una narrazione univoca, riconoscibile, affascinante. “L’Isis si rivolge a un pubblico di giovani occidentali, prima ancora che musulmani o migranti”. Marco Bruno, sociologo della comunicazione alla Sapienza di Roma, ha analizzato linguaggio e simbolicità dei messaggi che il Califfato sta rivolgendo al mondo, e spiega come il destinatario finale sia proprio quel pubblico occidentale terrorizzato e nello stesso tempo affascinato da tanta violenza.
L’occasione è il convegno di presentazione del libro di Marco Orioles “E dei figli, che ne facciamo?”, che fa un’accurata disamina sociologica delle seconde generazioni di immigrati in Europa e della loro integrazione. La domanda sottesa a tutta la discussione è come sia possibile che tanti ragazzi, nati e cresciuti in Europa, abbandonino tutto per correre a combattere nelle fila dello “Stato islamico”, i cosiddetti “foreign fighters”. Si calcola che siano circa quattromila quelli già partiti, mentre il saggio introduttivo al libro, dal titolo “L’odio e la matita: riflessione sull’attentato a Charlie Hebdo” ricorda che il fenomeno di attentatori cresciuti nella cultura europea, “lupi solitari”, “jihadisti della porta accanto” – e perciò tanto più difficili da individuare da parte delle intelligence – esiste almeno da una decina di anni, dagli attentati di Londra fino a quello del caffè di Copenhagen dei giorni scorsi.
Se il libro approfondisce il tema dell’identità delle seconde generazioni, in bilico fra assimilazione e rifiuto dovuto a un’emarginazione sociale, culturale ed economica, in cui il “born again muslim” può ritrovare una direzione, il dibattito si sposta verso l’impatto dell’immaginario costruito ad arte per inchiodare allo schermo milioni di telespettatori. “C’è un format riconoscibile – continua Bruno -, con le tute arancioni dei condannati che ricordano Guantanamo, un primo messaggio che crea l’attesa del successivo, mentre la dimensione religiosa fornisce il vocabolario, i simboli del messaggio. C’è una perfetta consapevolezza dei consumi culturali occidentali, con una costruzione che rimanda ai supereroi americani”. Da questo punto di vista siamo lontanissimi dal linguaggio e dai mezzi comunicativi passati, dai video semi-amatoriali di Bin Laden o dai comunicati delle Brigate Rosse, i cui contenuti erano rielaborati dalla stampa e dai politici.
Jihadi John, il più noto fra i personaggi di questa narrazione, ha frequentato una buona scuola anglicana, viveva in un quartiere borghese, era programmatore informatico. Non c’è quindi solo quel senso di vendetta per una società che mette ai margini i più deboli, o un’ignoranza culturare da riempire con il lavaggio del cervello. “Vi sono anche motivazioni immateriali, si pensa di entrare in una nuova sfida, in un gioco, in un film che fa uscire dall’omologazione e dalla mediocrità – commenta Khalid Chaouki, deputato e membro della Commissione Esteri -. Diventano contemporaneamente vittime e carnefici di un terrorismo che non colpisce più i simboli economici, ma la convivenza stessa e i valori della civiltà in cui sono cresciuti, mentre le madri stesse si trovano sole di fronte a questi figli passati dalla discoteca alla jihad”.
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