Dal sito di Voci Globali, pubblico la prima parte di questo articolo tradotto da Open Democracy che consiglio di leggere anche nella versione integrale. Racconta il nuovo, tragico sviluppo che sta prendendo in Israele e soprattutto nei territori la rivolta sempre più disperata del popolo palestinese contro ‘occupazione. Disperazione che non è difficile percepire in queste forme efferate di omicidio-suicidio, che si producono anche in assenza di fanatismo religioso (nandocan)
*** di Karin Attia, 22 gennaio 2016 – Coltelli da cucina, mannaie da macellaio, forbici, sassi. Sono queste le armi oggi scelte e utilizzate dai palestinesi nell’ultima ondata di violenza in Israele e in Cisgiordania. Le ultime cifre parlano di 22 israeliani, 150 palestinesi, un americano e un eritreo. Negli ultimi tre mesi, ci sono stati 105 accoltellamenti – e molti degli autori di questi crimini erano donne. Secondo alcune voci quest’ondata di violenza rappresenterebbe una nuova rivolta – una terza Intifada – io credo che se fosse davvero così, questa “terza Intifada” sia molto diversa rispetto alle prime due per un paio di ragioni: è meno controllata ed è più “personale”.
Un’Intifada segreta. Al momento, i sedici aggressori di quest’intifada “segreta” sono state donne. Sette di loro sono state viste mentre accoltellavano uomini ebrei in spazi pubblici e sette erano state fermate prima di un tentativo di accoltellamento, una di loro aveva tentato uno scontro automobilistico e un’altra aveva un ordigno esplosivo in macchina, che aveva precedentemente fatto esplodere. La novità preoccupante di quest’Intifada non risiede nel fatto che le donne siano capaci di prendere parte a episodi di violenza quanto nel carattere “privato” di questi attacchi. Le donne, infatti, per secoli hanno commesso volontariamente e con passione atti di terrorismo, così come è stato studiato a fondo dagli studiosi di terrorismo Mia Bloom e Yoram Schweitzer. Si tratta, invece, di qualcosa di personale poiché le armi scelte, come i coltelli appunto, richiedono una vicinanza fisica tra l’aggressore e la vittima. A differenza del terrorismo suicida o degli attentati dinamitardi, non c’è alcuna distanza fisica che protegga l’aggressore dagli occhi della vittima.
Si tratta di una rivolta”privata” perché gli esecutori non sono soldati jihadisti ma piuttosto persone auto-motivate, che agiscono per conto di una propria organizzazione. Queste sedici donne incarnano due caratteristiche principali: sono giovani; dodici di loro hanno meno di 23 anni, la più giovane ha 14 anni e, inoltre, sono auto-motivate poiché agiscono come “lupi solitari”. Donne nate nel periodo successivo agli accordi di Oslo, un’epoca caratterizzata dalla continua presenza dell’occupazione e dall’assenza di un dialogo significativo o di risoluzioni sul tavolo di scontro tra Israele e la Palestina. Sebbene io non tolleri questa violenza, la mancanza di speranza e la disperazione da parte degli aggressori assumono delle dimensioni importanti per tutto ciò. Perché c’è un numero così consistente di donne palestinesi che improvvisamente impugna le armi?
La prima Intifada, durata dal 1987 al 1993, non aveva chiamato all’azione le donne. Al contrario, come afferma Mira Tzoreff, le donne avevano il compito di essere “coloro che davano origine” alla rivoluzione, coloro che “coltivavano” la rivoluzione, le madri dei figli che avrebbero eseguito gli attacchi. La seconda Intifada, dal 2000 al 2005, ha portato la prima donna kamikaze palestinese, Wafa Idris, e anche il coinvolgimento diretto delle donne negli atti di violenza e nel terrore.
Come ha sostenuto Yoram Schweitzer, queste donne erano per lo più ventenni, non sposate oppure divorziate, e senza figli. Si crede che cercassero un modo per liberarsi dalla vergogna e/o dal disonore che gravavano su di loro e sulle loro famiglie. Per questo il martirio sembrava essere un modo per combattere il loro disonore o la loro vergogna.
Che cosa spinge le donne a comportarsi in questo modo? Io penso che una delle ragioni per cui assistiamo ad un incremento del numero di donne che prende parte a quest’Intifada sia il fatto che questi attacchi richiedono poca o nessuna pianificazione. Infatti accoltellare qualcuno usando un coltello da cucina è qualcosa che un individuo può eseguire senza il bisogno di avere l’”infrastruttura” di un’organizzazione terroristica. Inoltre credo anche che la natura di questi attacchi sia direttamente collegata alla disperazione provata da molti palestinesi, soprattutto donne, che portano il peso maggiore, e l’idea che tempi disperati richiedano misure disperate. Le donne agiscono in questo modo perché vogliono fortemente cambiare la loro situazione; agiscono perché credono che gli uomini non stiano facendo abbastanza nella lotta contro l’occupazione….
*Traduzione a cura di Luciana Buttini, dall’articolo originale di Karin Attia pubblicato su openDemocracy