Un caratteraccio. Se chiudo gli occhi, mi pare ancora di sentire il suo vociare alterato nei corridoi della redazione per i colleghi che si attardavano ancora a scrivere qualche minuto prima della messa in onda del telegiornale. Al Tg2, Roberto Costa (mai saputo che si chiamasse Mario) è stato nei vent’anni che abbiamo lavorato in quella nobile testata uno straordinario “uomo macchina”. Che è poi un giornalista a cui non capita quasi mai di uscire per un servizio ma senza il quale non uscirebbe neppure il giornale. Andrea Barbato, che gli aveva affidato l’edizione del nuovo telegiornale, lo apprezzava moltissimo, come pure i colleghi che avevano imparato a conoscere, dietro quei modi bruschi e spicciativi, un compagno di lavoro generoso e cordiale. Non soltanto per per lui, i guai vennero con la militarizzazione delle redazioni per opera dei direttori di nomina berlusconiana, a cominciare da Mimun. Così lui prese la via di Milano, dove l’accolsero volentieri e gli permisero di curare una trasmissione, “Il circolo delle 12”, che ebbe un certo successo anche tra i giovani. “Attualità di Montaigne”, un mio reportage dalla terra del grande filosofo che non era riuscito a trovar posto nel tg2, trovò ospitalità in quel programma. E quella fu l’ultima occasione che avemmo per incontrarci. Ciao Roberto. (nandocan)
***di Loris Mazzetti, 3 marzo 2016 – Con Mario Costa, per tutti Roberto, non se ne va solo un grande giornalista, un fratello, ma anche un po’ di noi: di me sicuramente. Chi ha avuto la grande fortuna di lavorare nelle sue redazioni ha imparato che prima di tutto bisogna essere resistenti alle ingerenze della politica, contro le censure di ogni tipo, combattere per la libertà di espressione e l’indipendenza dei giornalisti, anche per questo è stato, sin dall’inizio, un amico di Articolo21. Senza retorica, Roberto è stato un giornalista come quelli raccontati nei film americani, sigaretta in bocca, bicchiere di whisky accanto alla macchina da scrivere, la valigia sotto la sedia, sempre pronto ad essere testimone del tempo per raccontare una storia nuova, in Vietnam oppure a Cassino, non aveva importanza: il giornalista va dove i fatti accadono. Sono pochi quelli che ho conosciuto in grado di dettare un pezzo senza averlo scritto come se fosse stato scritto: Roberto era uno di questi e l’altro era Enzo Biagi. Roberto è stato un capo molto generoso, non geloso del suo essere grande talento (come disse di lui Angelo Guglielmi quando lasciò la Rai), un talento mai ostentato, pronto a scrivere una breve come fosse un editoriale, maestro del mestiere.
Non per niente è stato, quello che in gergo giornalistico si chiama un “uomo macchina”. Fare un tg è complesso, non si esaurisce con la decisione: “Questa sera parliamo di…”, bisogna assegnare i servizi, organizzare le riprese, i montaggi, i collegamenti nazionali e internazionali. Roberto era un carro armato produttivo. Lo sapevano bene i direttori con cui ha lavorato, quelli che lui ha considerato tali: Enzo Biagi, Villy De Luca, Ugo Zatterin e Andrea Barbato con il quale ha condiviso il glorioso Tg 2 Studio Aperto. Inviato speciale, caporedattore, vicedirettore, entrato in Rai nel 1959 dopo il praticantato alla Nazione di Firenze. Un duro, facile allo scontro con il potere, che gli veniva anche bene. Un esempio di giornalista dalla schiena dritta. Nel 1994, dopo aver rifiutato la proposta di dirigere Rai3 perché lui, soprattutto la sua storia, non avrebbe potuto avere a che fare con nomine uscite da un governo presieduto da Silvio Berlusconi.