Nella giornata in cui l’ONU invita alla solidarietà col popolo palestinese, vi propongo questo splendido reportage pubblicato dalla rivista “Internazionale”. Leggetelo tutto, credetemi che ne vale la pena. Lo ha scritto Francesca Borri, free lance che dal 2012 racconta la guerra in Siria ma come specialista in diritti umani ha lavorato nei Balcani, in Medio Oriente, e in particolare in Israele e Palestina. I suoi articoli sono stati tradotti in 15 lingue. Il suo libro più recente è La guerra dentro (Bompiani 2014) – nandocan.
Sono solo duecento metri, e stai solo cercando di tornare a casa. Ma è così Hebron, hai l’esercito a ogni angolo, e dubbi a ogni passo. Molti soldati, si vede, hanno paura. Non importa il giubbotto antiproiettile, l’elmetto, la mitragliatrice, non importa l’aria da duri: hanno paura quanto te, sono nervosi, pronti a fare fuoco alla minima incertezza. Il minimo movimento. E poi non capisci cosa ti dicono, parlano in ebraico. E comunque gli ordini cambiano a ogni minuto. A ogni checkpoint. Chiedi quali sono, e ti rispondono: gli ordini sono io.
Trenta degli 84 palestinesi uccisi finora, in questi giorni che nessuno ancora sa come definire, forse un’intifada forse no, venivano da Hebron. Ma Hebron, in realtà, è da sempre il luogo in cui ognuno tira fuori il peggio di sé. Dagli anni settanta circa seicento coloni vivono incuneati tra 180mila palestinesi per presidiare Ma’arat HaMachpelah, le tombe dei patriarchi, che per i musulmani sono invece la moschea di Abramo.
A Hebron ci si dà appuntamento accanto a un numero: il checkpoint 55, il checkpoint 56
È qui che Eyal Yifrach, Gilad Shaar e Naftali Frenkel, a giugno di un anno fa, hanno chiesto un passaggio in autostop e sono finiti sequestrati e uccisi; è qui che a settembre i soldati guardavano e i coloni ridevano mentre Dia al Talameh, per mezz’ora, sanguinava a morte. È qui che quando gli uni muoiono, gli altri alzano le spalle gelidi, niente di più: e a volte cantano e ballano. Festeggiano.
È qui che non si è più umani, in questa città divisa in area H1 e H2, la prima sotto controllo palestinese, la seconda sotto controllo israeliano: una città in cui ci si dà appuntamento accanto a un numero, il checkpoint 55, il checkpoint 56, e in cui in realtà, ormai, si è un numero, perché entra solo chi è registrato.
E per strada, per queste strade deserte – perché stanno tutti rintanati in casa dietro grate di ferro e muri di cemento – non si incontrano, meri numeri anche loro, che gli osservatori della Temporary international presence in Hebron (Tiph), chiamata a garantire il rispetto di accordi, protocolli, diritti e obblighi che nessuno, qui, più neppure ricorda quali siano: la presenza della Tiph è temporanea dal 1997. A Hebron sembra di vivere in guerra. Ogni famiglia ha una ricetrasmittente che ogni venti, trenta minuti gracchia notizie di scontri, accoltellamenti, incidenti di ogni tipo. Nessuno si chiede chi sia il morto: tutti si chiedono quale sarà la reazione, dove sarà il morto successivo.
E questa è l’unica cosa che israeliani e palestinesi, qui, hanno in comune….